“Non puoi perdermi d’occhio” – Il cosiddetto Deficit di Attenzione e Iperattività
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“Non puoi perdermi d’occhio” – Il cosiddetto Deficit di Attenzione e Iperattività
La scontatezza delle definizioni
Quanto più si parla di qualcosa, tanto meglio si gira e rigira intorno ad un vuoto, ed è il caso dell’ADHD, nome di un disturbo che come tale non dice granché, se non segnalare la presenza di un qualcosa di troppo (iperattività) e di un qualcosa di mancante (attenzione) che hanno un qualche legame tra di loro, se non altro per il fatto di presentarsi insieme. Diremo che l’altro elemento in comune è da ritrovare dalla parte di chi guarda, che dà il nome al disturbo in base alla difficoltà che vive col bambino.
La prima definizione che possiamo dare dell’ ADHD è che esso è dunque un disturbo che ha a che fare con le relazioni, che coinvolge e perturba le relazioni tra il bambino e il suo Altro (che sia la famiglia, la scuola, ecc).
La relazione con l’Altro è fin da subito implicata, al punto da essere il campo da dove proviene il nome stesso del cosiddetto disturbo.
Bisognerà partire dalle definizioni, per chiarire lo statuto etico di ciò che scriverò. Purtroppo oggi le definizioni sono date per scontate: iperattività, dislessie, anoressia, bulimia, ossessioni, panico, depressione, ecc, sono parole parlate da tutti, mostrando il paradosso che le definizioni a volte hanno l’effetto di far in modo che non si capisca più di cosa parlino.
L’Attenzione
La definizione di “attenzione” dal vocabolario Treccani è relativamente semplice, ma contiene alcuni tratti da tenere presenti. Si dirà che non è un vocabolario specialistico o di settore. Forse è meglio. Le parole non nascono dalla scienza, ma la scienza tratta le parole dimenticando che appunto…sono parole. Useremo dunque una definizione più vicina alla lingua che non alla ri-traduzione che ne fa la scienza.
La definizione è la seguente:
Attenzione, [dal lat. attentio -onis, der. di attendĕre «rivolgere l’animo»], atto di rivolgere e applicare la mente a un oggetto; processo che permette di concentrare o d’indirizzare l’attività psichica su un determinato oggetto, sia di ordine sensoriale, sia di ordine rappresentativo.
Colpisce subito la definizione dell’attenzione come di un “atto”. Un atto di chi? Di un io, che intenzionalmente rivolge la mente a qualcosa? È una possibilità.
Ma questa definizione sottintende una divisione tra io e mente: c’è un io che ha intenzione di rivolgersi a un oggetto, e c’è una mente (un processo cognitivo, come lo si voglia chiamare) che viene rivolta a quest’oggetto, e viene rivolta lì a causa di quell’io che l’ha deciso.
Non è così scontato, ma secondo questa definizione è necessario dire che, mentre io rivolgo attenzione a qualcosa, la causa di questo mio atto non coincide con l’atto stesso.
C’è qualcosa che sta là in mezzo, c’è una faglia, tra l’atto attentivo e la causa stessa di quest’atto.
La prima sottolineatura è dunque rivolta a questo: c’è qualcosa in gioco che è dell’ordine di una causa.
Questo immediatamente pone un’evidenza: l’attenzione (normale o in deficit che sia) è un effetto, è l’effetto di una causa.
Oltre all’aspetto di “atto”, l’attenzione sottintende una direzione del soggetto, motivo per cui i bambini con deficit di attenzione hanno difficoltà mantenere una direzione, “a seguire”, fanno cioè difficoltà a indirizzare il loro atto in modo da immetterlo nello spazio e nel tempo. L’attenzione consente in effetti di far sentire lo scorrere del tempo. L’adhd comporta un cortocircuito nella costituzione stessa del tempo: non passa da un tempo 1 a un tempo 2 a un tempo 3, ecc; bensì ogni atto è un evento unico, per cui dal tempo 1 passerà a un altro tempo 1 e poi a un altro 1, e così via. Non c’è serie. O, per meglio dire, c’è una serie di elementi sconnessi tra di loro.
Tutto questo mette in difficoltà il bambino nel costituirsi degli apprendimenti, della memoria, persino delle routine quotidiane, perché inibisce la creazione di legami tra gli eventi.
La terza sottolineatura è rivolta alla dicitura “deficit di attenzione”: se consideriamo l’attenzione come atto di rivolgersi a un oggetto, si tratterebbe di un deficit relativo a un certo uso dell’attenzione. Non di certo, infatti, questi bambini peccano nell’atto di dare attenzione, si potrebbe anzi dire che danno attenzione a troppe cose, per cui non riescono trattenersi, e a trattenere questa attenzione su un oggetto.
Non si trattiene sull’oggetto, e questo rende ogni oggetto inconsistente, al punto che poco o niente attira il suo l’interesse in modo costante, ma una moltitudine di stimoli può attirare continuamente il suo interesse: è la confusione. Vede tutto ma non guarda niente. Niente ha presa su di lui.
Vedremo che il bambino in effetti fa di se stesso un oggetto diametralmente opposto a questo esempio, ponendosi, nella relazione con l’Altro, nella posizione d’esser sempre guardato, di essere continuamente preso dallo sguardo dell’Altro.
L’iperattivitá.
È relativamente semplice provare a descrivere cosa ci sembra iperattivo. Ma non è scontato avere un’idea di cosa sia un “attività” o per meglio dire un “atto”.
Il DSM, ossia il manuale diagnostico per i disturbi mentali, definisce così l’iperattività:
(a) spesso agita o batte mani e piedi o si dimena sulla sedia;
(b) spesso lascia il proprio posto in situazioni in cui si dovrebbe rimanere seduti;
(c) spesso scorrazza e salta in situazioni in cui farlo risulta inappropriato (negli adolscenti e negli adulti può essere limitato al sentirsi irrequieti);
(d) è spesso incapace di giocare o svolgere attività ricreative tranquillamente;
(e) è spesso sotto pressione, agendo come se fosse “azionato/a da un motore”;
(f) spesso parla troppo;
(g) spesso “spara” una risposta prima che la domanda sia stata completata;
(h) ha spesso difficoltà nell’aspettare il proprio turno;
(i) spesso interrompe gli altri o è invadente nei loro confronti.
Si vede come l’attività, definita in eccesso, iper-, è ogni volta, in ciascuno di questi punti dell’elenco, iper agli occhi di chi guarda. È sempre per l’altro che un bambino è iperattivo.
Strano che si parli poco della dimensione soggettiva del corpo di questo bambino, se non nei punti d) ed e), dove si riconosce una difficoltà a giocare e un sentimento di pressione.
Bisogna dunque ripensare a cosa sia un atto. Intanto, un corpo agisce perché può. L’etimo stesso della parola “agire” ha a che fare con il movimento, con l’andare e il venire, con il condurre, con la spinta. Anche respirare, in questa accezione è un atto.
L’azione diventa iper lì dove chi guarda non riesce a inquadrarla in una cornice di senso: si dimena…passa da una sedia all’altra…non sta fermo…
L’iperattività è allora la descrizione di una struttura particolare, che riguarda sempre la relazione tra il soggetto e l’altro: il corpo del bambino, come la sua attenzione, non si ferma in un certo posto. Potremmo definire l’iperattività come il disturbo che il bambino prova nell’occupare un certo posto in un luogo. Questo bambino è così mobile che non si sa dove ritrovarlo una volta che lo sguardo si sposta da lui. Il corpo del bambino non ha il suo posto, non trova un suo posto, dove restare. L’altro non fa presa su questo corpo, dirglielo non lo ferma, rimproverarlo non lo ferma. La parola scivola sul suo corpo e non fa presa.
In questa disamina dunque deficit di attenzione e iperattività sono manifestazioni di uno stesso disagio, quello di non riuscire a fermarsi, a prendere posto, né con la mente né con il corpo.
Un tentativo di separazione?
Risulta chiaro che il corpo del bambino non è un’isola, che agisce, iper-agisce o mostra attenzione, in solitudine. Il corpo del bambino è sempre in rapporto all’altro, fin dalla sua nascita.
Riprendiamo il discorso sulla causa, su quella faglia che scopriamo quando intendiamo dire “io do attenzione” oppure “io mi muovo”. La causa di questi atti non è nell’io che li compie.
Per la psicoanalisi la causa è da rintracciare nel rapporto del soggetto con il suo corpo e con l’Altro.
Questo significa che esiste una modalità particolare e unica, una per una per ogni bambino, con la quale la soggettività è in rapporto al proprio corpo e a quello che succede nell’Altro.
Diremo subito che qualcosa della causa si mostra se consideriamo l’ADHD come un tentativo cortocircuitato di separazione dall’Altro.
Questo tentativo appare con gli effetti dell’iperattivitá e del deficit di attenzione.
Separazione in cortocircuito, è ciò che vediamo soprattutto nell’altro, che vive la quotidianità con il bambino. I genitori, gli insegnanti, gli operatori, che sono con il bambino, lamentano l’impossibilità di lasciargli uno spazio di autonomia, l’impossibilità di non poter evitare di intervenire affinché non si faccia male o non rischi di rompere qualcosa, ecc.
Il bambino con ADHD è in un rapporto con l’altro che potremmo definire in eccesso. L’altro è iperpresente. Innanzitutto col suo sguardo. Il bambino con ADHD ha necessità di essere “guardato, tenuto d’occhio”, per evitare pericoli.
Dal canto suo il bambino sa bene rintracciare le azioni che stimolano lo sguardo dell’Altro: mettersi in pericolo, salire in alto sulle sedie, non riuscire ad aspettare ponendo l’attenzione dell’altro su di lui ad ogni costo. Non si trattiene, è sempre “sul punto di…”.
Questo bambino, si pone egli stesso come causa dell’angoscia di chi gli sta intorno. Pone il suo corpo come oggetto della perdita, ma in modo particolare: né del tutto perduto né del tutto trattenuto, egli è ”lì per lì per essere perso”.
“Non puoi perdermi…d’occhio”, è la cifra del rapporto con l’Altro nel bambino con ADHD.
Non puoi perdermi, e dunque non c’è separazione, ma neanche unione. Il bambino sfugge allo sguardo e allo stesso tempo lo stimola, si potrebbe dire che non permette di poter guardare altro.
Si comprende allora come la questione sulla causa sia di un ordine che va al di là del fenomeno (attenzione o iperattività).
È la perdita, la separazione dall’Altro che è in gioco, una perdita difficoltosa, una separazione che sa più di “scomparsa”, per la quale il bambino non trova risorse simboliche a sufficienza per potersi orientare.
Per queste ragioni un intervento che ponga in logica questi elementi non può evitare di prevedere un certo lavoro sull’Altro, innanzitutto i genitori e gli insegnanti, che devono poter trovare uno spazio dove lavorare sul proprio modo di essere nella relazione col bambino. In secondo luogo, un lavoro sull’Altro del simbolico, ossia sul fornire le risorse simboliche necessarie affinché il bambino possa orientarsi nei suoi luoghi e nelle sue attività, senza il rischio di “perdersi”.
Ma, in primis, lo ricordiamo, i familiari e gli insegnanti devono poter lavorare sulla propria angoscia, provata nel rapporto col bambino. Non si tratta soltanto di tecniche e strumenti compensativi. Si tratta di rendere operativi questi aiuti all’interno di una relazione che favorisca lo sviluppo della soggettività del bambino. E se non c’è un trattamento dell’angoscia da parte di chi vive col bambino, non c’è chance di separazione.
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