Le depressioni: due logiche diverse
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Le depressioni: due logiche diverse
Il dolore di esistere, la spinta inarrestabile del soggetto verso l’annientamento di se stesso, la costante sconfitta del desiderio di fronte alla sua mortificazione, fino ad arrivare alla spinta alla morte nel tentativo di suicidio, si mostrano legate strutturalmente a due logiche differenti, che delineano, per la psicoanalisi, due direzioni della cura diverse.
Prima logica.
La depressione come “viltà morale” è la prima struttura a cui può rispondere la sofferenza depressiva.
Non è necessariamente meno grave della seconda logica che vedremo a breve.
La viltà morale è il rifiuto di assumere la propria mancanza, il proprio desiderio. Il soggetto paga lo scotto di questo rifiuto con il senso di colpa, che resta in ogni caso, se siamo in questa logica, legato all’altro. Restando il senso di colpa un affetto legato all’altro, può essere anche una spinta a mettere in discussione l’immobilismo del depresso. Per questa ragione chi sente la colpa non verrà assolto in analisi, ma troverà un inquadramento del suo rifiuto per il desiderio e un rilancio dello stesso, che porterà il soggetto di fronte alla sua responsabilità per ciò soffre.
“Rifiuto di ben dire” lo chiama Lacan, del “ben dire” dell’inconscio, ovvero del “dire bene” il desiderio. Questo rilancio, questa ripartenza che punta dal desiderio, si oppone al “blabla” ripetitivo del lamento depressivo.
In questa logica, anche il tentativo suicidario resta in connessione con un possibile appello all’Altro, chiamato in causa con il tentativo di scomparire per sempre, lasciandone una mancanza radicale, provocando, cioè, un movimento di desiderio.
Seconda logica.
La depressione è qui intesa come impossibilità soggettiva di assumere la responsabilità del proprio dolore. Essa risponde dunque ad una logica differente dalla prima.
Qui non è in gioco un appello all’Altro come luogo da cui ricavare un desiderio.
Non si gioca qui alcuna partita con l’inconscio. Il soggetto, dopo una perdita che non può, strutturalmente, elaborare si ritrova scaraventato in una identificazione con l’oggetto-scarto, gettato nella certezza di essere indegno, un derelitto. Si identifica a ciò che egli stesso ha perduto.
Egli è certo di essere la merda, l’oggetto perduto. Ora, anche nella prima logica, il cosiddetto “depresso” può dire di sentirsi una merda. Ma questo stato è metaforico, influenzabile dalla parola dell’altro, dagli apprezzamenti, o dalle disconferme del suo valore. La depressione della II logica, attinente al campo di ciò che Freud individuò nella melanconia, ha a che vedere con un assunto indiscutibile di mortificazione del sentimento della vita. E’ una certezza instillata nelle profondità dell’essere, che non risponde al legame con l’Altro. La melanconia non è esposta semplicemente ad una ferita narcisistica, ad una frustrazione d’amore, o ad una perdita di amabilità. Potremmo piuttosti dire che chi ne soffre non è mai stato visto dall’Altro. Vive nell’assunto di non aver mai avuto accesso al sentimento di essere amato, riconosciuto, desiderato. Ha incontrato uno sguardo vuoto, uno sguardo che l’ha trapassato senza vederlo, uno sguardo che dunque gli ha conferito lo statuto di essere niente più che lo scarto di questo sguardo. Un “nulla da vedere”.
Il tentativo di suicidio qui non fa appello all’Altro, ma rappresenta il tentativo disperato di separarsi radicalmente dall’Altro, da questo sguardo che lo ha nullificato.
Esce di scena, realizzando il godimento di farsi lo scarto per eccellenza, nel tentativo di essere allora guardato, ma proprio come scarto della vita, quando ormai cioè è troppo tardi.
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