Il termine “psicosi” è stato coniato da Ernst von Feuchtersleben, scrittore e sottosegretario all’istruzione austriaco (Vienna, 1806 –1849), con il significato generale di “follia”, ovvero una condizione caratterizzata da perdita di contatto con la realtà, disturbi delle percezioni, del pensiero e del linguaggio, dell’affettività e delle funzioni cognitive.
A partire da Freud, la psicoanalisi ha letto la psicosi come una rottura dell’Io con la realtà esterna: l’Io ritorna al suo stato originario indifferenziato, si ritira, allontanando gli investimenti dall’altro della realtà per dedicarsi a una rielaborazione bizzarra dei significati del mondo (come nel caso dei deliri). In particolare, Freud legge le “Memorie di un malato di nervi” pubblicate nel 1903 da Daniel Paul Schreber, presidente della Corte di Appello di Dresda. Dalla sua lettura nacque il testo di Freud “Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia (dementia paranoides) descritto autobiograficamente”. Freud ha fatto diventare Schreber “il primo paziente psicotico” della storia della psicoanalisi e lo definì, senza troppa ironia, “professore di psichiatria e direttore di clinica” (lettera a Jung, 22 aprile 1910), nel senso che la psicoanalisi aveva imparato qualcosa di importante dalla testimonianza delle sue “Memorie”. A partire dall’idea raccontata dal presidente Schreber nelle sue “Memorie” – Sarebbe davvero bello essere una donna che soggiace alla copula – sopraggiunta a seguito di un sogno, Freud ipotizzò che alla base del suo ritiro psicotico ci fosse un rigetto delle sue tendenze omosessuali mediante la negazione e la proiezione. La scissione dalla realtà esterna e il crollo dell’Io trovano il proprio corollario nella regressione ad un antico livello narcisistico.
Jacques Lacan rilegge la teoria freudiana sulle psicosi, rimandando la questione causale al rapporto del soggetto con il simbolico: le psicosi hanno a che fare con un buco nel simbolico. Questo buco fa sì che possano verificarsi allora i fenomeni descritti da Freud relativamente alla scissione e alla regressione narcisistica. Per Lacan nelle psicosi riscontriamo, a causa di questo buco, l’impossibilità di dare una legge al desiderio dell’altro, ritrovandosi allora in balia del suo capriccio. La legge di questo desiderio implica che l’altro abbia una regolazione nei confronti del soggetto, regolazione che Lacan identifica nel signifcante “nome del padre”, ovvero ciò che, nel discorso materno, fa la legge della sua presenza e della sua assenza. Il buco nel simbolico è dunque il buco lasciato aperto dalla mancata iscrizione del “nome del padre”, che possiamo intendere come il regolatore dei significati del mondo, come ciò che, dando una legge alla presenza e all’assenza, consente al soggetto di vivere con desiderio la sua mancanza. “E’ per quello che non c’è…dunque posso desiderare di essere e di avere altro” perché il campo aperto dall’assenza dà la chance al soggetto di rivolgersi al mondo; se il campo è saturo, non c’è spazio di movimento. Rimane dunque, in assenza del nome del padre, l’unico oggetto dell’altro, con tutte le conseguenze del ritrovarsi ad essere l’unico desiderio di qualcuno: fagocitato da un amore sconfinato e senza limiti, immerso nel mondo immaginario e nel linguaggio materno, senza poter disporre del simbolico come luogo della parola condivisa, del legame sociale e dell’amore verso l’altro e verso altro che non sia la propria madre.